mercoledì, febbraio 16, 2011

Matilda

Matilda riposa quieta nella culla.
Tiene i pugni serrati e ha il sorriso misteriosamente beato dei neonati nel sonno.
Mi chiedo se sogni e che cosa sogni.
Giorgio e Terry, i suoi genitori, al mio fianco, si limitano a contemplarla con un misto di tenerezza apprensiva e compiacimento.
E’ bella Matilda.
Bianca e rosa, con un ciuffo di capelli neri e uno sbarazzino nasino all’insù.
E si è fatta attendere.
Non solo perché è nata quasi due settimane dopo il termine.
Come capita spesso si è annunciata quando i miei amici, dopo anni di speranze disattese, avevano pronta la domanda d’adozione.
E’ solo l’ultima di una serie di bambini che ho visto nascere e crescere in questi anni da quando Francesco se ne è andato.
Immagino che ne nascessero (e la gente intorno a me si sposasse e mettesse su famiglia) più o meno con la stessa frequenza anche prima, ma era il mio sguardo ad essere diverso.
Lo sguardo di chi può ancora dire con un sorriso “forse domani” e non di chi ha inciso dentro un “mai più”.
Mi allontano in punta di piedi, senza far rumore.
Saluto in fretta i miei ospiti, sono in partenza.
Mi aspetta un treno che mi riporterà a casa dopo una breve vacanza.
Lungo la via per la stazione mi compiaccio di me stessa, della strada che ho fatto da quando anche solo la vista di un neonato riusciva istantaneamente a riempirmi gli occhi di lacrime.
Ora sono serena, con il cuore leggero come non mi capitava da anni e la gioia per la nascita di Matilda è un’emozione che posso condividere senza più venature di amarezza.
Difficili da ammettere ancor più che da mascherare.

Durante il viaggio l’immagine della bimba scivola lentamente fuori dai miei pensieri mentre cerco di indovinare il colpevole di un vecchio giallo anni 40.
Ma mi resta dentro e fa riemergere dal profondo qualcosa che credevo archiviato per sempre.
Un sogno mi risveglia a tradimento poco prima dell’alba.
Era da molto tempo che non lo sognavo più, dopo che per anni, dalla nostra rottura, aveva popolato le mie notti.
A ricordarmi, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che poteva essersene andato dalla mia casa, mai diventata nostra – o esserne stato cacciato, secondo la sua versione – ma continuava a rimanermi dentro, a non lasciarmi libera.
Invece Francesco sceglie proprio questa per tornare e chiedere di me, con insistenza, nonostante i tentativi di eluderlo fisicamente e poi di sfuggire le sue domande.
“Che fai ora?”.
E io gli racconto del lavoro, della famiglia, degli amici, forse anche di qualcuno che è riuscito a farmi tornare a ridere e sorridere.
Ci riesco persino con un certo distacco, apparentemente senza rancore.
Sono le ultime parole che pronuncio nel sogno però a pesare come macigni. “senza figli”.
Non so se aggiungo anche “per colpa tua”, ma è come se lo facessi anche senza dirlo.
E in quel momento, anche nel tono apparentemente calmo, la rabbia è così fredda e al tempo stesso così scoperta, riconoscibile da sorprendermi e farmi svegliare.
No, non provo più l’angoscia o il dolore crudo, lacerante dei primi tempi dopo l’abbandono, ma sono come stranita dalla verità che ho davanti agli occhi.
Sono io a non averlo ancora lasciato andare, non del tutto almeno.
E quello che ci lega è in fondo quello che ci ha separati.
Qualcuno sostiene che nell’inizio di ogni storia à già scritta anche la sua fine o comunque il suo destino.
Non potrebbe essere più vero che per noi due.
Due persone così diverse da essersi cordialmente detestate al primo incontro.
Un colloquio di selezione da cui, ci siamo confessati in seguito, io sono uscita mormorando a me stessa “che stronzo!” e lui “questa è una che se la tira anche se…”.
Per ritrovarci a lavorare prima cameratescamente fianco a fianco e poi, inavvertitamente, quasi senza accorgercene, sempre più vicini.
Eppure ancora così lontani, addirittura opposti per carattere, origini ed esperienze.
Io, sotto l’apparenza controllata e un po’ distante, intuitiva, istintiva e passionale, a volte fino all’autolesionismo, lui, a prima vista più razionale, distaccato, ironico, a tratti anche aggressivo, ma con una profonda vena di malinconia e un dolore recente, bruciante, tenuto ben nascosto.
Non a me però, non a lungo almeno.
Col tempo sono arrivata a pensare che le persone che hanno subito una perdita lacerante, di quelle che lasciano il segno per sempre, in qualche modo si riconoscano a pelle, forse addirittura si cerchino.
La mia perdita, quella di mia madre nell’ infanzia, remota nel tempo, ma per molti aspetti ancora viva, mi permetteva di arrivare senza mediazioni razionali o verbali al cuore della sua: un figlio, rubatogli senza possibilità di appello o di riscatto dalla sua ex moglie.
Ora non riesco nemmeno a dire “ci siamo innamorati” perché col tempo sono arrivata a dubitare di tutto quello che abbiamo vissuto insieme e soprattutto dei suoi sentimenti per me.
Quello che so è di averlo amato come mai prima.
E uno dei ricordi più belli e dolorosi che mi restano di noi è la sua voce che mi dice dopo aver fatto l’amore “nessuna mi ha mai amato come mi ami tu”.
Ti sembra inaccettabile che neppure questo alla fine possa essere abbastanza.
Siamo abituati, anzi sarebbe meglio dire abituate perché credo che siano soprattutto le donne a crederci -o forse lo facciamo solo più a lungo, sfidando sia la ragione che il buonsenso - che davvero “amor omnia vicit”.
“Love will conquer all” potrebbe essere il nostro grido di battaglia in guerre che nella maggior parte dei casi finiamo rovinosamente per perdere.
Ma quando l’amore diventa una guerra è già perso.
La sconfitta è scritta nell’inizio stesso del conflitto.
In quella crepa che si insinua insidiosa nel momento in cui ti rendi conto che il senso comune della perdita che vi ha uniti comincia a dividervi.
Perché per te è un punto di partenza, la voglia di prendersi una rivincita sulla vita, sul destino, il desiderio di aprirsi di nuovo al futuro, mentre per lui è una lapide a cui non può fare a meno di tornare, continuando a coltivare il rimpianto e il sogno segreto di qualcosa o qualcuno che miracolosamente resusciti il passato e lo faccia rivivere.
Niente unisce o divide come il desiderio di un figlio.
Soprattutto un uomo che vive il lutto e il senso di colpa per un bambino che è vivo, ma che non può vedere, toccare, crescere e una donna il cui tempo biologico sta per scadere.
Non è un rifiuto esplicito, dichiarato , ma un sottrarsi alla scelta pur nella consapevolezza di rischiare, in alcuni momenti di abbandono totale, che a scegliere per tutti e due sia semplicemente la natura.
Non è un caso neppure che la via d’uscita da uno stallo divenuto insostenibile sia una donna non solo più giovane, ma con un figlio senza padre e la dichiarata intenzione, per motivi di salute, di non averne altri.
Una soluzione e un’espiazione insieme, ho pensato spesso a posteriori con un sorriso amaro sulle labbra.
Forse quello che col tempo mi ha fatto smettere se non di amarlo, di volergli bene e di stimarlo è stato il lasciarmi anche il peso terribile, chiedendogli apertamente di scegliere tra me e l’altra, di decidere di chiudere e come.
Poi ci sono stati solo una rabbia che sembrava inestinguibile e un dolore sordo e brutale, che ha annichilito i miei giorni e le mie notti, da cui sono riemersa con fatica, con pazienza.
Non mi ha consolato certo che, scoprendo che tra l’avere un figlio e restare con lui avrei scelto comunque lui, mi abbia detto “ se solo me lo avessi detto…”.
Né replicargli, con giusto un filo di velenosa ironia, “se solo mi avessi ascoltata invece di sfuggirmi…”.
Ma c’è qualcosa che non sa e che non gli dirò mai.
In quegli ultimi mesi carichi di tensione, in un’estate insopportabilmente afosa e per me indimenticabile, anche se solo per una manciata di giorni, sono stata incinta di lui.
Distratta dai miei troppi pensieri solo parecchi mesi dopo, in un colloquio con la ginecologa, mi sono resa conto che quello che avevo derubricato come un ritardo e poi un ciclo decisamente anomalo era un inizio di gravidanza non andato a buon fine.
Allora ho pianto certo, eppure stranamente senza disperarmi.
Non per rassegnazione, forse per un’inconscia consapevolezza.
Adesso penso che quello che è accaduto fosse una perfetta metafora del nostro amore.
Intenso certo, a tratti travolgente, ma non così solido, forte, tenace da mettere radici profonde e permettere a nostro figlio di crescere dentro di me e venire al mondo.
E nella rabbia riportata a sorpresa alla luce dal mio sogno vedo il riflesso del rimpianto e del senso di impotenza che proviamo sempre di fronte ai nostri sogni spezzati.
Qualcosa che non si cancellerà mai del tutto.
Come una cicatrice che sbiadisce, ma resta per sempre a segnare un tempo e un luogo.
Forse – mi dico - non l’ho ancora perdonato del tutto, né ci riuscirò mai.
Ma non penso più che sia colpa sua. O che questo sia poi così importante…

3 commenti:

Daniela ha detto...

"nell’inizio di ogni storia à già scritta anche la sua fine"
Ma allora cos'è questa lacerante nostalgia se non il senso profondo di un sentimento che è stato Amore? Nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma...

kalz ha detto...

Da leggere e commentare in punta di piedi per non essere invadenti. Però non me la sento di andarmene senza dirti che mi è piaciuto e che sono contento di essere un lettore del tuo blog.

Anonimo ha detto...

grazie a tutti e due :)!
sono decisamente lusingata.