un corridoio immerso nella luce limpida di una prima mattina di quasi estate.
un vestito chiaro, lungo e leggero, che sfida a braccia nude l'aria ancora frizzante e suggerisce, ma non svela, curve e contorni.
uno sguardo distante e pensieroso in cui si accende d'improvviso una scintilla.
inclini le labbra nella piega ironica che ho appena imparato a conoscere.
ti sorrido e non abbasso gli occhi.
con un gesto repentino ti chini appoggiando la mano al muro, quasi a cercare sostegno.
e intanto il braccio libero mi avvolge, mentre ti accalori nella discussione.
mi catturi così in un abbraccio che non mi sfiora eppure mi imprigiona.
inarco la schiena, mi tendo come per scattare, ma so che non fuggirei neanche se volessi.
le parole ormai sono solo un sussurro indistinto in sottofondo.
un brivido sottile si espande al ritmo del tuo respiro e del mio battito.
un'onda che danza, ci avvicina e separa.
occhi negli occhi che ridono.
labbra che si baciano senza toccarsi con frasi fatte a pretesto.
dilatiamo con sapienza l'attimo in attesa che qualcuno o qualcosa spezzi l'incanto, ma non la promessa di ciò che verrà.
sapremo sempre che è cominciato qui.
http://www.youtube.com/watch?v=9MXKZUX8XgY
martedì, aprile 06, 2010
mercoledì, marzo 31, 2010
here we go again...
la prossima settimana compirò cinquant'anni.
un traguardo e un passaggio importante. e difficile. specie per una donna.
non posso neppure dire di non essere dove o come mi immaginavo perché da un certo momento in poi - e piuttosto presto - ho smesso di sognare il futuro e mi sono limitata a cercare di sopravvivere, di restare a galla.
o forse, semplicemente, il passato a cui avevo voltato le spalle, consegnandogli in pegno una parte di me, ha cominciato a richiamarmi inesorabilmente indietro.
mentre in apparenza, con cieca cocciutaggine, mi sforzavo di andare avanti.
e ora che quei conti sono stati saldati e alla fine sono libera di guardare un orizzonte nuovo, è come se fossi stranita, disorientata da quella libertà, da quell'integrità che pure ho inseguito per tutta la vita.
quasi una vertigine di fronte ad un precipizio.
ma è proprio qui che volevo essere.
di nuovo.
e questa volta intera.
e non sola...
http://www.youtube.com/watch?v=BOByH_iOn88
un traguardo e un passaggio importante. e difficile. specie per una donna.
non posso neppure dire di non essere dove o come mi immaginavo perché da un certo momento in poi - e piuttosto presto - ho smesso di sognare il futuro e mi sono limitata a cercare di sopravvivere, di restare a galla.
o forse, semplicemente, il passato a cui avevo voltato le spalle, consegnandogli in pegno una parte di me, ha cominciato a richiamarmi inesorabilmente indietro.
mentre in apparenza, con cieca cocciutaggine, mi sforzavo di andare avanti.
e ora che quei conti sono stati saldati e alla fine sono libera di guardare un orizzonte nuovo, è come se fossi stranita, disorientata da quella libertà, da quell'integrità che pure ho inseguito per tutta la vita.
quasi una vertigine di fronte ad un precipizio.
ma è proprio qui che volevo essere.
di nuovo.
e questa volta intera.
e non sola...
http://www.youtube.com/watch?v=BOByH_iOn88
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mercoledì, marzo 17, 2010
Vienna Felix e Finis Austriae
Palazzo Reale a Milano ospita dal 26 febbraio al 6 giugno, grazie alla collaborazione con il Leopold Museum di Vienna, la mostra dedicata a Egon Schiele e al suo tempo.
Forse meno conosciuto al grande pubblico del suo mentore Gustav Klimt o di un rivale espressionista come Oscar Kokoschka, Schiele incarna alla perfezione con la sua breve ed intensa parabola personale ed artistica lo spirito di un’epoca e di una cultura che hanno contribuito a modellare l’intero Novecento.
Si forma nella Vienna Felix degli anni a cavallo tra i due secoli, magnifica capitale di un impero austroungarico all’apogeo del suo splendore e che pure comincia a mostrare le prime incrinature.
Segnali disattesi di un declino ormai prossimo.
La stessa città raccontata con maestria e malinconia nei romanzi di Musil, Zweig, Roth e acremente dileggiata e messa alla berlina da Karl Kraus.
Il giovane Schiele partecipa con passione alla ribellione degli artisti della Secessione contro i dettami dell’accademia in nome di un’arte che vuole al tempo stesso essere espressione profondamente individuale ed assolvere ad una funzione sociale migliorando la qualità della vita umana.
Il motto che li contraddistingue è: “Per ogni tempo la sua arte / per ogni arte la sua libertà”.
Ma il suo percorso rimane sempre orgogliosamente personale. Se nelle prime opere è evidente l’influsso dello stile elegantemente decorativo di Klimt, assolutamente originale è il quasi impudico autobiografismo degli autoritratti.
Una sorta di diario degli stati d’animo che caratterizzerà tutta la sua produzione e che rivela l’altro grande influsso culturale sulla sua opera, quello della psicanalisi freudiana.
E se il suo cognome in tedesco richiama il guardare sottecchi, in tralice, quasi come una sfida Schiele decide di sperimentare la profondità della visione.
Nessuna dimensione della vita sfugge al suo occhio impietoso eppure non privo di compassione: dall’erotismo, dalla sensualità e dalla femminilità, esplorati con una disinibizione che arriverà a costargli il carcere, al misticismo, frutto dell’esperienza della detenzione, alla solitudine dei paesaggi di campagna ed urbani, alla rarefazione delle nature morte.
Sopravviverà alla I guerra mondiale per morire, insieme all’Impero che lo aveva visto nascere, nel 1918, a 28 anni, vittima, insieme alla moglie e al figlio non ancora nato, della micidiale epidemia di spagnola.
Ma con la consapevolezza espressa nelle ultime parole alla madre di aver creato qualcosa di destinato a restare: “La guerra è finita, e io devo andare. I miei quadri saranno esposti in tutti i musei del mondo”.
Forse meno conosciuto al grande pubblico del suo mentore Gustav Klimt o di un rivale espressionista come Oscar Kokoschka, Schiele incarna alla perfezione con la sua breve ed intensa parabola personale ed artistica lo spirito di un’epoca e di una cultura che hanno contribuito a modellare l’intero Novecento.
Si forma nella Vienna Felix degli anni a cavallo tra i due secoli, magnifica capitale di un impero austroungarico all’apogeo del suo splendore e che pure comincia a mostrare le prime incrinature.
Segnali disattesi di un declino ormai prossimo.
La stessa città raccontata con maestria e malinconia nei romanzi di Musil, Zweig, Roth e acremente dileggiata e messa alla berlina da Karl Kraus.
Il giovane Schiele partecipa con passione alla ribellione degli artisti della Secessione contro i dettami dell’accademia in nome di un’arte che vuole al tempo stesso essere espressione profondamente individuale ed assolvere ad una funzione sociale migliorando la qualità della vita umana.
Il motto che li contraddistingue è: “Per ogni tempo la sua arte / per ogni arte la sua libertà”.
Ma il suo percorso rimane sempre orgogliosamente personale. Se nelle prime opere è evidente l’influsso dello stile elegantemente decorativo di Klimt, assolutamente originale è il quasi impudico autobiografismo degli autoritratti.
Una sorta di diario degli stati d’animo che caratterizzerà tutta la sua produzione e che rivela l’altro grande influsso culturale sulla sua opera, quello della psicanalisi freudiana.
E se il suo cognome in tedesco richiama il guardare sottecchi, in tralice, quasi come una sfida Schiele decide di sperimentare la profondità della visione.
Nessuna dimensione della vita sfugge al suo occhio impietoso eppure non privo di compassione: dall’erotismo, dalla sensualità e dalla femminilità, esplorati con una disinibizione che arriverà a costargli il carcere, al misticismo, frutto dell’esperienza della detenzione, alla solitudine dei paesaggi di campagna ed urbani, alla rarefazione delle nature morte.
Sopravviverà alla I guerra mondiale per morire, insieme all’Impero che lo aveva visto nascere, nel 1918, a 28 anni, vittima, insieme alla moglie e al figlio non ancora nato, della micidiale epidemia di spagnola.
Ma con la consapevolezza espressa nelle ultime parole alla madre di aver creato qualcosa di destinato a restare: “La guerra è finita, e io devo andare. I miei quadri saranno esposti in tutti i musei del mondo”.
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domenica, febbraio 21, 2010
quel che non puoi chiedere all'amore...
"how bout me not blaming you for everything
how bout me enjoying the moment for once
how bout how good it feels to finally forgive you
how bout grieving it all one at a time"
giusto poco prima di San Valentino, grazie a qualcuno che me l'aveva rammentata per caso, ho ascoltato di nuovo questa canzone dopo parecchio tempo.
e mi sono ricordata all'improvviso che quel cd era stato il mio primo regalo di Natale all'uomo che ho amato di più nella mia vita, in un momento in cui pensavo che la nostra storia, appena cominciata, fosse già finita.
in realtà ho vissuto altri 5 anni come un funambolo sulla corda.
sempre appesa a quella dannata paura di perderlo che non mi ha permesso neppure di godere fino in fondo delle cose belle che abbiamo vissuto insieme.
quella notte, o meglio quella mattina, prestissimo, mi sono svegliata e mi sono resa conto di sentirmi libera.
perché anch'io l'ho finalmente perdonato.
non perché quello che è accaduto fra di noi sia meno grave o faccia meno male.
ma vedo, con una chiarezza di cui non ero capace prima, me in quella storia e quello che gli stavo chiedendo.
che lui e quell'amore mi risarcissero di tutto quello che la vita mi aveva tolto fino a quel momento.
nessun uomo e nessun amore reggono un'aspettativa in realtà infinita.
per molto tempo ho pensato che non avrei mai più amato nessuno così e mi sembrava terribile.
oggi mi sembra una cosa incredibilmente sana.
ed io che sono sempre stata romantica, passionale, istintiva, impulsiva mi ritrovo a pensare che nessun amore, neanche il più grande, può sopravvivere e mettere radici senza la quieta, apparente modestia del voler bene.
how bout me enjoying the moment for once
how bout how good it feels to finally forgive you
how bout grieving it all one at a time"
giusto poco prima di San Valentino, grazie a qualcuno che me l'aveva rammentata per caso, ho ascoltato di nuovo questa canzone dopo parecchio tempo.
e mi sono ricordata all'improvviso che quel cd era stato il mio primo regalo di Natale all'uomo che ho amato di più nella mia vita, in un momento in cui pensavo che la nostra storia, appena cominciata, fosse già finita.
in realtà ho vissuto altri 5 anni come un funambolo sulla corda.
sempre appesa a quella dannata paura di perderlo che non mi ha permesso neppure di godere fino in fondo delle cose belle che abbiamo vissuto insieme.
quella notte, o meglio quella mattina, prestissimo, mi sono svegliata e mi sono resa conto di sentirmi libera.
perché anch'io l'ho finalmente perdonato.
non perché quello che è accaduto fra di noi sia meno grave o faccia meno male.
ma vedo, con una chiarezza di cui non ero capace prima, me in quella storia e quello che gli stavo chiedendo.
che lui e quell'amore mi risarcissero di tutto quello che la vita mi aveva tolto fino a quel momento.
nessun uomo e nessun amore reggono un'aspettativa in realtà infinita.
per molto tempo ho pensato che non avrei mai più amato nessuno così e mi sembrava terribile.
oggi mi sembra una cosa incredibilmente sana.
ed io che sono sempre stata romantica, passionale, istintiva, impulsiva mi ritrovo a pensare che nessun amore, neanche il più grande, può sopravvivere e mettere radici senza la quieta, apparente modestia del voler bene.
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ogni fine è un inizio
ci sono momenti in cui si va avanti, anche alla cieca, per pura ostinazione.
per dimostrare qualcosa a se stessi più che per autentica necessità.
quando si dovrebbe invece trovare il coraggio per fermarsi.
tornare indietro.
e ricominciare.
anche resistere ad ogni costo può essere, oltre che autolesionistico, una semplice questione di orgoglio.
a volte bisogna semplicemente arrendersi.
toccare il fondo.
per risalire di nuovo...
e respirare a pieni polmoni.
per dimostrare qualcosa a se stessi più che per autentica necessità.
quando si dovrebbe invece trovare il coraggio per fermarsi.
tornare indietro.
e ricominciare.
anche resistere ad ogni costo può essere, oltre che autolesionistico, una semplice questione di orgoglio.
a volte bisogna semplicemente arrendersi.
toccare il fondo.
per risalire di nuovo...
e respirare a pieni polmoni.
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lunedì, gennaio 25, 2010
il valore della memoria
…..quando avvertiva che la sventura stava per abbattersi sul suo popolo, il Baal Shem Tov usava ritirarsi in raccoglimento in un dato punto del bosco. ivi giunto, accendeva un fuoco e recitava al cielo una preghiera e il miracolo si compiva, e la sventura era scongiurata.
gli anni passarono e toccò al suo discepolo, il Maghid di Mesritch, intervenire per scongiurare le sventure che via via, minacciose si profilavano.
in quei momenti, il Maghid si recava nel bosco e diceva: “Signore del Cielo, prestami ascolto. come vada acceso il fuoco non lo so, nessuno me lo ha insegnato oppure l’ho dimenticato. però la preghiera sono ancora capace di recitarla, e credo che basterà”.
e il miracolo si compiva.
gli anni passarono, nubi cariche di sventura si addensavano. dal suo ritiro nascosto nel bosco Rabbi Moshe Loeb di Sesow diceva: “non so come vada acceso il fuoco, non conosco la preghiera: perché nessuno mi ha insegnato il modo e le parole, oppure perché io stesso le ho dimenticate. però il luogo so come trovarlo e forse basterà”.
e ancora il miracolo si compiva.
poi toccò a Rabbi Israel di Rizin scongiurare le minacce che incombevano sul suo popolo.
seduto su un pancaccio, si prese il capo fra le mani e mormorò: “non so come vada acceso il fuoco, non conosco la preghiera, non so più trovare quel punto nel bosco. niente di tutto questo so, nessuno me l’ ha insegnato oppure l’ha dimenticato. tutto quel che so fare, è tener viva la memoria di questa storia: basterà?”
(dalla tradizione orale dei Hassidim)
gli anni passarono e toccò al suo discepolo, il Maghid di Mesritch, intervenire per scongiurare le sventure che via via, minacciose si profilavano.
in quei momenti, il Maghid si recava nel bosco e diceva: “Signore del Cielo, prestami ascolto. come vada acceso il fuoco non lo so, nessuno me lo ha insegnato oppure l’ho dimenticato. però la preghiera sono ancora capace di recitarla, e credo che basterà”.
e il miracolo si compiva.
gli anni passarono, nubi cariche di sventura si addensavano. dal suo ritiro nascosto nel bosco Rabbi Moshe Loeb di Sesow diceva: “non so come vada acceso il fuoco, non conosco la preghiera: perché nessuno mi ha insegnato il modo e le parole, oppure perché io stesso le ho dimenticate. però il luogo so come trovarlo e forse basterà”.
e ancora il miracolo si compiva.
poi toccò a Rabbi Israel di Rizin scongiurare le minacce che incombevano sul suo popolo.
seduto su un pancaccio, si prese il capo fra le mani e mormorò: “non so come vada acceso il fuoco, non conosco la preghiera, non so più trovare quel punto nel bosco. niente di tutto questo so, nessuno me l’ ha insegnato oppure l’ha dimenticato. tutto quel che so fare, è tener viva la memoria di questa storia: basterà?”
(dalla tradizione orale dei Hassidim)
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mercoledì, gennaio 06, 2010
1985, a night in the fall...
...... on a train from London to the continent
The compartment door was shut noisily. I opened my eyes and saw him. He whispered “Sorry”, surprisingly with a gentle smile. I replied coldly only nodding, then I turned my back on him and started looking through the window. Only darkness outside.
I had been nervous since before the train left the station and didn’t want to talk to anyone. Certainly not to him.
Handsome? Even too attractive for my measured taste, with a light suspicion of affectation in his appearance: dyed blond hair, long, polished hands and a good imitation of an Italian style suit.
On the contrary there was no artificiality in his friendly, direct smile.
Paolo had never smiled at me that way. Even when we had met in high school.
Now he smiled with dignity and satisfaction as clever, successful young men are expected to do.
It didn’t matter until I believed I loved him. But did I still love him?
So why, when I had left for England, had I thought of that holiday with uneasiness as “my last summer of freedom”?
I should have been in seventh heaven. I was going to take my degree and get married. That was the future I had dreamt of for such a long time.
Why did I begin thinking it could be perfect, not happy?
Steve helped me to understand.
Finally we began talking. I was fed up with all my doubts and my Walkman didn’t work at all. But music was not for him a mere ruse to start a conversation with an unknown girl.
He played the guitar in a rock band still searching for success and explained his projects and dreams with an infectious enthusiasm.
He came from a working class family and I could guess he had not had an easy life, but seemed not to feel regrets nor complain. He was speaking of himself so naturally and frankly that I was slowly driven to give up my usual, formal, controlled attitude.
I answered his questions without fear or shyness, for the first time talking of my privileged life with detachment, even irony and while talking I discovered I was looking at it as a luxurious, glittering box with nothing inside.
A cage in which I had been living safely believing to be happy.
But I didn’t feel sad or angry or deceived. Only relieved and thankful.
I don’t know how much time we spent together, but I can’t forget the feeling between us.
We didn’t realize that time had passed until the train stopped.
Suddenly we were silent and shy. The train for Geneva was leaving in a few minutes and he had to join the band in Munich.
The last things I remember are a brief, soft touch of his lips and a pair of dark grey eyes looking at mine through the window.
We’ve never met again.
However my life is different from how it should have been.
I didn’t marry Paolo.
It was not easy to tell him and he didn’t understand nor forgive.
I’m alone, but not lonely.
I work hard and enjoy my job.
I’ve some new friends.
Above all I’m no longer scared of the future.
Simply I live and hope.
Somebody is coming.
The compartment door was shut noisily. I opened my eyes and saw him. He whispered “Sorry”, surprisingly with a gentle smile. I replied coldly only nodding, then I turned my back on him and started looking through the window. Only darkness outside.
I had been nervous since before the train left the station and didn’t want to talk to anyone. Certainly not to him.
Handsome? Even too attractive for my measured taste, with a light suspicion of affectation in his appearance: dyed blond hair, long, polished hands and a good imitation of an Italian style suit.
On the contrary there was no artificiality in his friendly, direct smile.
Paolo had never smiled at me that way. Even when we had met in high school.
Now he smiled with dignity and satisfaction as clever, successful young men are expected to do.
It didn’t matter until I believed I loved him. But did I still love him?
So why, when I had left for England, had I thought of that holiday with uneasiness as “my last summer of freedom”?
I should have been in seventh heaven. I was going to take my degree and get married. That was the future I had dreamt of for such a long time.
Why did I begin thinking it could be perfect, not happy?
Steve helped me to understand.
Finally we began talking. I was fed up with all my doubts and my Walkman didn’t work at all. But music was not for him a mere ruse to start a conversation with an unknown girl.
He played the guitar in a rock band still searching for success and explained his projects and dreams with an infectious enthusiasm.
He came from a working class family and I could guess he had not had an easy life, but seemed not to feel regrets nor complain. He was speaking of himself so naturally and frankly that I was slowly driven to give up my usual, formal, controlled attitude.
I answered his questions without fear or shyness, for the first time talking of my privileged life with detachment, even irony and while talking I discovered I was looking at it as a luxurious, glittering box with nothing inside.
A cage in which I had been living safely believing to be happy.
But I didn’t feel sad or angry or deceived. Only relieved and thankful.
I don’t know how much time we spent together, but I can’t forget the feeling between us.
We didn’t realize that time had passed until the train stopped.
Suddenly we were silent and shy. The train for Geneva was leaving in a few minutes and he had to join the band in Munich.
The last things I remember are a brief, soft touch of his lips and a pair of dark grey eyes looking at mine through the window.
We’ve never met again.
However my life is different from how it should have been.
I didn’t marry Paolo.
It was not easy to tell him and he didn’t understand nor forgive.
I’m alone, but not lonely.
I work hard and enjoy my job.
I’ve some new friends.
Above all I’m no longer scared of the future.
Simply I live and hope.
Somebody is coming.
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